Il prossimo Guest Post è stato scritto da Gianmarco Diana, classe 1973 che oltre a essere conduttore del programma Cinematica in onda su Radio X è musicista nei Sikitikis e nei Dancefloor Stompers. Appassionato musicologo e collezionista di colonne sonore collabora con il portale colonnesonore.net; ha scritto per Stereorama un interessante post dedicato allo stile italiano delle colonne sonore.
Che
cosa ha reso lo stile italiano nel comporre musica da film così particolare da
rendere oggi spasmodica la ricerca di quei vecchi vinili? Perché i nostri
“cugini” americani o giapponesi stravedono per l’italian soundtrack style,
tanto da riconoscerlo alla prima nota? Che cosa, ancora, fa si che personaggi
da noi quasi completamente ignorati rivestano all’estero lo status di
eroi musicali?
Da
appassionato del genere, non ho alcun problema a riconoscere agli Italiani uno
stile. È
vero, infatti, che una colonna sonora italiana suona diversamente dalle altre e
che, negli anni a cavallo tra la fine dei ’50 ed i ’70, i compositori italiani
si sono emancipati da quello che era lo standard codificato del commento
sonoro all’americana, rimpiazzando gli ormai sterili epici sinfonismi, caratteristici di certe produzioni
Hollywoodiane, con i più sinceri e tradizionali riferimenti alla melodia
italiana.
Ma
andiamo per ordine e cerchiamo di individuare il momento preciso nel quale si
incomincia a costruire questo stile; dopo la stagione del Neo-realismo, ancora
musicalmente dominata da certo drammatico sinfonismo ad opera di autori come
Renzo Rossellini e Sandro Cicognini, con gli anni ’50 si arriva ad una nuova
idea di fusione di generi, alti e bassi, nelle composizioni della musica da
film. Emblema del nuovo corso potrebbe essere Nino Rota, un musicista
che ha attraversato gli anni ’40 ed ha prodotto musica fino al 1979, anno della
sua prematura scomparsa, fedele alleato e complice di Federico Fellini nel
creare quelle atmosfere sospese tra sogno e realtà, capace di far convivere
nella stessa composizione elementi di musica classica e napoletana, andamenti
tipici del jazz di New Orleans ed aperture sinfoniche, boogie woogie
e marcette popolane, musica barocca e dissonanze da musica contemporanea. Altro
che crossover! E questo è proprio uno dei punti di forza ed un elemento
caratteristico della produzione italiana: la commistione di generi musicali
diversi, la capacità di metabolizzare le musiche degli altri e farle apparire
come qualcosa di nuovo, autoctono ed imprevedibile! Consideriamo il jazz,
genere sbarcato in Italia all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e, da
allora, sposato da tantissimi musicisti, gli stessi che sarebbero diventati i
grandi
compositori della musica da film in Italia. Non è un caso. Il jazz
rappresentò per loro la possibilità di comporre in maniera libera,
affrancandosi dai tanto vituperati schemi della musica classica, sfogando
finalmente quello che avevano dentro e rivitalizzando, al tempo stesso, la
tradizione. Pianisti come Piero Umiliani, Piero Piccioni e Armando
Trovajoli, trombettisti come Ennio Morricone e Franco Micalizzi,
sassofonisti come Giancarlo Barigozzi, trombonisti come Dino Piana
e contrabbassisti come Berto Pisano, per non citare che i più noti,
cominciarono la loro carriera di musicisti con il jazz. Fu poi un passo
naturale quello di inserirlo nei film a commento, il che rappresentò uno
spartiacque non indifferente poiché i registi si resero conto che funzionava;
non solo nei film noir o a sfondo poliziesco, ma persino nelle commedie.
Si pensi a I soliti ignoti, cult soundtrack composta dal
grandissimo Pierino Umiliani (R.I.P.) per l’omonimo film di Mario Monicelli:
per la prima volta una commedia italiana utilizzava il jazz come colonna
sonora per le imprese di un branco di ladri iellati e disorganizzati, riuscendo
a caratterizzare tutte le situazioni topiche del film (il tema portante che
individua la banda, quello più dolce per la splendida Claudia Cardinale, quello
solo spazzole e contrabbasso per rendere i passi furtivi, quello con sola
chitarra per le rocambolesche cadute, e via dicendo…). Monicelli ne fu
entusiasta- raccontò Umiliani, soddisfatto ed orgoglioso di un primato. Sulla
scia del clamoroso successo del film e della colonna sonora di Umiliani,
tantissimi registi decisero di affidare il commento sonoro dei loro lavori a
musicisti appassionati di jazz; fu così che nacquero capolavori dell’italian
soundtrack style come Sette uomini d’oro, strepitoso jazz da big
band composto da Armando Trovajoli con la partecipazione vocale dei
Cantori Moderni di Alessandro Alessandroni, Smog e La legge dei gangsters,
entrambe di Piero Umiliani, Il boom, La decima vittima e Tre notti d’amore di Piero Piccioni, Il sorpasso e Una sull’altra
di Riz Ortolani, Svegliati e uccidi di Ennio Morricone, per non citare
che i più ricercati lavori d’impronta strettamente jazzistica che hanno
caratterizzato lo stile italiano anche all’estero. Il punto è che, nonostante
fosse
palese il modello jazz americano (in particolare il riferimento
cinematografico più diretto era l’Henry Mancini della serie TV Peter Gunn
o l’Elmer Bernstein di L’uomo dal braccio d’oro, due soundtracks
che ebbero notevole diffusione tra i musicisti italiani, che rappresentarono,
però, un punto di partenza e non d’arrivo..a detta dei protagonisti stessi),
altrettanto lodevole fu il tentativo di andare oltre il modello stesso, coi
continui rimandi ad una musicalità e melodia tutta italiana, evidente nell’uso
del coro come vero e proprio funambolico strumento dell’orchestra,
nell’utilizzo
atipico degli strumenti più tradizionali, così come nella ricerca
timbrica attraverso arditi esperimenti sonori a base di clavicembali, viole,
mandole, ottoni e percussioni. Dicevamo della capacità tutta italiana di
riuscire a metabolizzare le culture altrui per riplasmarle a modo proprio:
fenomeno evidente nella composizione per il cinema dove creazione e citazione
si fondevano in un prodotto unico ed - ecco il paradosso - tipicamente italiano!
Pensiamo al caso più emblematico: il suono dello spaghetti western creato da Ennio Morricone per la c.d. trilogia del dollaro di Sergio Leone caratterizzò, da lì in poi, il suono tipico, addirittura il mood per
antonomasia del western anche americano, polverizzando in un colpo solo
ciò che, fino ad allora, avevano fatto Dimitri Tiomkin o lo
stesso Bernstein. E
non dimentichiamoci che Morricone riuscì a creare il suono di un villaggio
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western,
delle sparatorie e delle bevute al saloon, utilizzando il fischio e la
chitarra di Alessandroni, la tromba di Lacerenza ed il marranzanu!
Sembra quasi di poter pensare che tra le lande siciliane ed il deserto del
selvaggio West non esista soluzione di continuità! Questo perché la potenza
immaginifica del suono creato andava al di là della realtà. Col tempo altri
furono gli elementi musicali inglobati nello stile italiano: un grande amore
per le musiche sudamericane- mambo, cha cha cha e soprattutto bossanova-
il movimento ritmico del twist e del boogie woogie, le sinuosità
del valzer o, al contrario, le spigolature più acide della psichedelica e del funk,
fino ai primi duri esperimenti di musica concreta e utilizzo del free jazz
in ardite colonne sonore per thriller, horror o documentari Tv.
Ognuna di queste derive meriterebbe un approfondimento, così come ognuno degli
autori citati, ed è quello che cerchiamo di fare, ogni settimana, su
CinematiCA. State
sintonizzati....
Gianmarco Diana